Auto, Cina sul podio degli esportatori. A trainare è il boom dei modelli elettrici

Il Dragone è leader mondiale nella produzione fin dal 2009. Ora conquista il primato nell’export, ma in Europa la quota non supera l’1,5% Frenano l’avanzata prezzi ancora alti, reputazione dei brand e geopolitica.

Il 2023, secondo AlixPartners, sarà l’anno del sorpasso per i brand del Dragone in Cina: conquisteranno oltre il 50% complessivo del mercato domestico proprio grazie al boom dei Nev (New energy vehicles, a batteria e ibridi plug-in). Accade dopo decenni di dominio di big come Volkswagen e Toyota in joint venture con partner locali.

I prezzi competitivi, il lancio in tempi più serrati di nuovi modelli ad alto contenuto tech molto apprezzati dal pubblico cinese e l’ascesa di campioni nazionali come Byd, Geely (con la rampante Zeekr), Gac, Chery, Li Auto, Nio e XPeng (che ha appena avviato una collaborazione con Volkswagen per produrre due nuovi modelli in Cina) hanno cambiato il panorama in una manciata di anni. Il governo di Pechino ha fatto la sua parte con sussidi per 57 miliardi di dollari tra il 2016 e il 2022, contro i 12 degli Stati Uniti.

BALZO PRODIGIOSO NELLE ESPORTAZIONI

Dal primo trimestre 2023, con un prodigioso +80%, la Cina ha superato il Giappone come maggiore esportatore di automobili al mondo. A fine anno si stimano 4,4 milioni di vetture spedite all’estero dal Dragone (di cui 1,3 elettriche, raddoppiate), secondo la società di ricerche Canalys. Esito prevedibile visto che dal 2009 i cinesi hanno strappato proprio al Giappone anche la leadership della produzione, raddoppiata nel 2022 da 10,3 a 23,8 milioni di automobili (dati Oica, l’organizzazione internazionale dei produttori).

AlixPartners prevede che le vendite complessive in Cina cresceranno del 3% quest’anno raggiungendo 24,9 milioni di veicoli (Ubs stima 8,8 milioni di auto “alla spina”, +35%), come nel 2019, prima del Covid. Già nel 2027 più della metà dei veicoli immatricolati in Cina saranno elettrici.

Le vendite annuali di automobili con marchio cinese nei mercati esteri, sempre secondo AlixPartners, cresceranno fino a 9 milioni di veicoli entro il 2030. Ciò darebbe ai brand cinesi il 30% della quota globale e una quota di mercato del 15% in Europa. Transport & Environment, Ong ambientalista che ha spinto per il discusso stop europeo ai motori a combustione interna nel 2035, stima che i costruttori cinesi potrebbero assicurarsi dal 9% al 18% del mercato delle auto elettriche già entro il 2025.

LA REALTÀ ATTUALE E CINQUE POSSIBILI OSTACOLI

Per adesso i numeri dicono che i 26 marchi cinesi attivi in Europa, secondo l’analisi di Jato Dynamics, si sono fermati nel primo semestre ad appena lo 0,66% del mercato. Quota che secondo dati Acea (l’associazione dei costruttori europei) salirebbe all’1,5%. Di sicuro quindi c’è il potenziale, ma non c’è ancora l’evidenza dei risultati. E non vanno sottovalutati i possibili ostacoli all’avanzata cinese in Europa.

Primo: le ambizioni del blocco degli Emergenti, i Brics, ora allargato a 11 Paesi e un terzo del Pil globale, non depongono a favore di un miglioramento delle relazioni a livello geopolitico tra Pechino e Occidente.

Secondo: il mercato cinese si trova ad affrontare un enorme eccesso di capacità produttiva. Il numero uno di AlixPartners in Cina, Stephen Dyer, mette in conto un significativo consolidamento. Solo da 25 a 30 delle oltre 100 realtà coinvolte nell’assemblaggio potranno sopravvivere entro il 2030. Ben due terzi di questi marchi non hanno registrato vendite lo scorso anno. Che un problema di eccesso esista lo testimonia in parte anche un fenomeno non nuovo, quello dei cimiteri di auto elettriche. Vetture diventate rapidamente obsolete per l’innovazione sostenuta dagli incentivi statali. Una velocità che ha travolto il settore del car sharing.

Terzo: calo della domanda come effetto del raffreddamento dell’economia cinese, in deflazione, e guerra dei prezzi (che abbatte la redditività) per fare fronte alla concorrenza, sono altri possibili venti contrari. La Cina secondo gli economisti di Pimco mantiene un settore manifatturiero efficiente. «Tuttavia, con la domanda interna cinese che vacilla e la domanda globale di prodotti cinesi che diminuisce, la Cina si ritrova con una capacità inutilizzata mentre i produttori si affannano a smaltire le scorte».

Quarto: gli oneri dell’export, complice la moneta debole, potrebbero incidere sui costi; la logistica (con porti saturi e tempi di consegna lunghi); i dazi (al 10% quelli europei) e il rispetto dei requisiti di sicurezza europei (ma le 5 stelle dell’Euro Ncap ormai non sono più un problema). Ecco perché il suv elettrico Byd Atto 3, che in Cina costa 20mila euro, in Europa ne costa 38mila. Le berline più prestanti non si trovano a meno di 50mila. Il prezzo medio di una elettrica calcolato da Jato Dynamics nel 2022 era 32mila dollari in Cina e 56mila in Europa. Paradossalmente non tutte le cinesi, con il quadro macro europeo, potrebbero rivelarsi alla portata delle famiglie.

Quinto: la percezione dei consumatori. Solo il 14% dei 1.629 tedeschi intervistati da YouGov nel 2022 conosceva il colosso Byd. Il 17% aveva sentito parlare del marchio premium Nio, mentre il 10% conosceva Lynk&Co e l’8% XPeng. Secondo lo stesso sondaggio, del 95% dei consumatori che conoscono Tesla, il 10% la prenderebbe in considerazione per l’acquisto. Tra coloro che già conoscono i marchi cinesi invece solo l’1% o meno pensa all’acquisto.

UN’OFFENSIVA APPENA INIZIATA

Ma l’offensiva vera è appena iniziata. I coreani di Hyundai-Kia ci hanno messo vent’anni per sfondare, quanto ci vorrà per l’esercito su quattro ruote del Dragone? Dalla parte dei cinesi, di sicuro, ci sono i dazi tutto sommato favorevoli. Per gli europei in Cina sono compresi tra il 15 e il 25%. Contro il curioso indecisionismo della Ue ha tuonato il presidente dell’Acea, Luca de Meo, capo di Renault. Il ceo di Stellantis, Carlos Tavares, ha messo in luce un vantaggio competitivo sui prezzi del 25% a favore del made in China. Entrambi hanno annunciato tagli consistenti dei costi (fino al 40%) per competere. Ricordando che gli occupati europei nell’automotive sono 13 milioni. E che questa industria pesa per il 7% del Pil continentale.

Negli Usa va diversamente: i dazi sono al 27,5% e in più, se non si produce con materie prime nordamericane, non si ha diritto ai sussidi. Un bel problema per chi preferisce giocare in casa su tutta la filiera.